C’è un grande protagonista del momento d’oro dell’Inter. Si chiama Simone Inzaghi, ha messo il timbro e ha le chiavi della squadra, anche quelle di riserva. La sua fortuna è stata quella di aver trovato una società presente – molto presente – nel momento più delicato della storia recente. Era appena andato via Hakimi; presto si sarebbe materializzato l’addio (non previsto) di Lukaku; il dramma di Eriksen, che in questi giorni ha portato alla risoluzione del contratto, nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Antonio Conte aveva intuito che sarebbe finita così e si era tirato fuori, come spesso gli accade quando il suo superego non viene soddisfatto da investimenti robusti e da un mercato figlio di enormi richieste.

L’Inter ha avuto il grosso merito di risolvere la pratica in un paio di giorni: doveva e voleva continuare con il 3-5-2 proprio per dare una continuità al progetto tattico, ha assistito con enorme curiosità alla fine del rapporto tra Lotito e Simone, è piombata sulla presa come un rapace che sa come e quando intervenire. La sera prima Inzaghi aveva detto sì al rinnovo con la Lazio dopo una cena con il suo presidente, il giorno dopo ha messo tutti i freni possibili e immaginabili. La notte aveva portato consiglio, un consiglio a strisce nere e azzurre, una tentazione irresistibile, un’occasione irripetibile.

Primo pregio: Inzaghi ha avallato il mercato senza i piagnistei del suo predecessore, sapeva che mai ci sarebbero state le condizioni per accontentarlo. Secondo pregio: ha scelto i giocatori su misura, nel rispetto del budget. Dumfries non sarà Hakimi, ma sta crescendo sempre più e ha qualità indiscutibili. Calhanoglu è il suo Luis Alberto, libero di accendersi e di sprigionare la sua fantasia. Dzeko, liberato a zero dalla Roma, uno come Simone avrebbe voluto allenarlo sempre, se poi la chance era quella di affiancargli il Tucu, al secolo Joaquin Correa, che aveva allevato in casa Lazio come un figlioccio autentico, la missione non sarebbe potuta partire meglio. Due pregi che, miscelati, hanno portato a un’Inter bella – a tratti bellissima – funzionale e spettacolare, malata di gol (103 nell’anno solare, chiaramente non sono tutti i suoi) e addirittura con qualche margine di ulteriore crescita. Inzaghi ha liberato la squadra dalla pressione maniacale del suo predecessore: certo, l’Inter era mentalmente pronta ma giocava con una zavorra mentale dovuta alle enormi esigenze del suo allenatore. E tatticamente era bloccata su Romelu Lukaku, un grande centravanti che si era caricato i compagni sulle spalle, aveva acceso Lautaro e si era messo in testa di arrivare al traguardo senza alcun tipo di indugio. Scudetto strameritato, tanta felicità ma questa davvero è la prefazione di un nuovo romanzo.

L’Inter di Inzaghi gioca a un tocco, massimo due, si è liberata del concetto “andiamo su Lukaku e ci pensa lui” e ne ha guadagnato la filosofia di squadra. Se non decolla Dumfries (o Darmian), c’è il nuovo Perisic mai così in forma come in questa prima parte della stagione. Se non sfonda Barella con le sue piroette, ci pensa Calhanoglu con una sgommata, senza dimenticare che quel Brozovic, bravissimo a inventare e a garantire gli equilibri, è davvero uno show continuo. Dzeko è il pivot, dovremmo dire il Brozovic degli ultimi trenta metri per come fa salire la squadra e per come la indirizza: anche quando non segna, un assist o un varco che si apre è come se fosse un gol. Lautaro è un assegno in bianco, Sanchez utilissimo e concreto, la difesa blindata. Potremmo continuare all’infinito, in sintesi emerge un concetto chiaro: nel rapporto difficoltà societarie enormi-poco tempo a disposizione, Simone Inzaghi ha davvero compiuto un capolavoro. Come se nulla fosse accaduto la scorsa estate, come se fosse su quella panchina da tre o quattro anni, come se conoscesse la Pinetina da una vita, invece è fresco di nomina. La sua Inter sintetizza un concetto che diventa essenziale: si diverte, libera da qualsiasi obbligo, convinta di essere forte e di riuscire a dimostrarlo senza imposizioni. Considerati i problemi degli altri, probabilmente la più forte.

Poi c’è un passaggio fondamentale che molti hanno lasciato colpevolmente in soffitta. Inzaghi è riuscito a dare un senso alla Champions, conquistando quegli ottavi che con Conte erano un autentico tabù. Due anni di esilio, fuori dalla fase ai gironi senza il minimo alibi: nella seconda stagione fuori da tutto, addirittura niente Europa League, uno schiaffo agli investimenti fatti e al blasone del club. Simone aveva detto che quello era un obiettivo, quasi come se fosse un moto di orgoglio, un messaggio nei riguardi di chi pensava che dopo il suo predecessore ci sarebbe stato un periodo di oblio. L’esatto contrario, almeno se pensiamo alla manifestazione per club più ambita, e non è poco. Il resto lo vedremo, ma le premesse sono ottime e abbondanti: in sintesi, la mano dell’allenatore e l’avallo-protezione del club. Un altro passaggio è fondamentale: l’Inter sta lavorando in modo concreto per risolvere le situazioni contrattuali in scadenza dei pezzi pregiati dell’organico. Sistemati Lautaro e Barella, adesso tocca a Brozovic: non a caso in tutte le interviste l’allenatore tocca l’argomento quasi con la sicurezza che non ci saranno intoppi o sorprese. Sarebbe bello se sul carro salisse anche Perisic, magari ci vorrà un supplemento di pazienza. Ma siamo appena all’inizio di un documentario con Inzaghi protagonista: ci sono le premesse per puntate bellissime, possibilmente vincenti.